il “FAUST” di Aleksandr Sokurov

              GRANDEZZA E ARTE CINEMATOGRAFICA PURA A VENEZIA

Un  film grandioso. Davanti a certi livelli, il cuore e la mente crepati dalla stragrande maggioranze dei film in uscita nelle multisale, si riapre in un respiro vivificante d’ arte e di assolutezza. Il “Faust” di Sokurov ha la potenza epica di un romanzo, la complessità strutturale di un’ opera filosofica e l’ equilibrio formale di una pellicola classica. Il tutto contestualizzato in una sceneggiatura di un’ attualità e umanità stupefacente, seppure l’ ambientazione sia remota, in un limbo di eternità e realtà.  Vita e morte, ambizione e desolazione, rifiuto e passione si mischiano in un vortice profilmico accurato e attento nella messa in scena e in una scenografia e fotografia che immobilizza lo spettatore, lo costringe in una poltroncina che diventa sempre più scomoda, sempre più angusta. L’ espressionismo tedesco e la tradizione della kammerspiel sono costantemente presenti nella pellicola tanto quanto lo è un senso costante d’ indecifrabilità di fondo dell’ arte quanto della filosofia che della natura umana, della psiche profonda dell’ uomo e del sapere, quello stesso sapere che il dottor Faust persegue visceralmente e che lo porta alla perdizione e ad un’ inquietudine crescente tra diavolo e sguardi, presenze oscure e quell’ homunculus nato in provetta che assomiglia incredibilmente al feto che fluttua tra le note di Strauss nello spazio in un altro, e lontano, capolavoro assoluto del Cinema moderno. Tutto ciò crea un grande proscenio teatrale in cui gli attori si muovono in modo equilibrato e armonico, secondo un grande sistema prossemico. La scenografia è organizzata secondo un ordine pittorico che ci ricorda il romanticismo di Friederich e Delacroix, uno stile epico, oscuro e inquietante tra gli spazi naturalmente austeri d’Islanda, dove è stato girato il film. Non c’è semplicità in questa pellicola, non c’è ordine se non quello intelletuale, labile nell’ ondata di immagini e scene spesso indistricabili, che arrivano a sfiorare la non narrazione in alcuni tratti, complice la durata di 134 minuti che dà un senso di infinitezza alla stessa pellicola, unito all’ indecifrabilità del finale che più volte sembra arrivare in anticipo rispetto alla storia, imprevedibile  quasi come in opera lirica di Wagner.

Liberamente tratto del “Faust” di Goethe, ultimo atto della tetralogia del regista, preceduto da “Moloch”(1999), un film su Hitler, “Taurus” (2000) su Lenin e “Il sole” (2005) sull’ imperatore giapponese Hirohito. Opera colossale che riflette sul potere e sull’ uomo, sulla sua fragilità, le sue passioni, le sue debolezze che condizionano la vita e le scelte anche di crete personalità storiche di enorme importanza.

Leone d’ oro 2011 alla 68′ mostra internazionale d’ arte cinematografica di Venezia.  Se i festival possono ancora servire a consegnare al pubblico e alla critica  grandi autori e certi capolavori, che ricordano l’ arte del Cinema e la grandezza della sua natura complessa e intricata, la sua difficoltà di creazione e d’ osservazione,  viva i festival e viva la biennale di Venezia. Vedere, d’ altra parte, una risicatissima distribuzione e una sala praticamente vuota non conforta ma questa è un’ altra storia.