“Cesare deve morire” di Paolo e Vittorio Taviani

SHAKESPEARE E TEATRO A REBIBBIA

voto:*** e mezzo (Italia-2011)

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Con l’ ultima scena della morte autoinflitta  di Bruto dopo la congiura romana  delle Idi di Marzo,  si chiude con successo  la rappresentazione teatrale del “Giulio Cesare” di Shakespeare nel teatro del carcere di massima sicurezza di Rebibbia . Dopo di che gli attori-detenuti tornano come ogni giorno in una cella desolata e spoglia, diventata ancora più angusta dopo lo stretto contatto con l’ arte, che in quel periodo li ha aiutati a sopportare la prigionia. Un flashforward  che anticipa l’ inizio cronologico della trama, avvenuto sei mesi prima, quando il direttore del carcere espone ai detenuti il progetto ricreativo teatrale. Ne seguiranno provini, definizione dei personaggi ,  prove di scena e di dialoghi continue e snervanti ma anche stimolanti ed appassionanti, non senza la sofferenza della detenzione, che sembra però assopirsi con questa dichiarativa esperienza artistica da parte di cinque attori carcerati: Cosimo Rega (Cassio), Salvatore Striano (Bruto), Giovanni Arcuri (Cesare), Antonio Frasca (Marcantonio), Juan Dario Bonetti (Decio) e Vincenzo Gallo  (Lucio).

Con un cast di non professionisti e di detenuti reali del carcere romano, Paolo e Vittorio Taviani realizzano un’ opera epica di grandissimo livello formale ed estetico. Confondendosi in un ambiente comunemente sconosciuto come il carcere, i cineasti   producono  una pellicola di forte impatto espressivo che va ad indagare il sentimento umano e intimo dei soggetti carcerati, che tramite un copione teatrale esprimono tutta la loro complessità interiore, frustrazione emotiva e coscienza  psicologica anche grazie a dei dialoghi che, rispetto all’ opera originale,  vengono tradotti  in una lingua provinciale, di  inclinazione dialettale (linguaggio che cambia a seconda delle origini di ognuno dei personaggi) , che dona una spontaneità ed un realismo pirandelliano all’ opera shakespeariana da una parte e un verismo  popolare di enorme umanità e solennità emozionale  dall’ altra. Il perfezionismo e l’ esperienza cinematografica dei fratelli Taviani si percepisce in ogni singola inquadratura, nel più impercettibile movimento scenografico e risente del genere documentario nella sua integrità  ed onesta narrativa. Sensibilità che  in questo caso veste anche i panni sociologici dell’ indagine pura della realtà in un carcere di massima sicurezza. Malgrado l’ età  artistica e  anagrafica  degli autori, l’ opera risulta di un’ attualità sorprendente e molto comunicativa e volitiva nel suo incedere sicuro ma ordinato, senza sbavature. Gli attori sembrano assolutamente dei professionisti e quasi mai risentono dell’ inesperienza recitativa, probabilmente grazie alla genuinità  dei dialoghi (spesso sottotitolati) con i quali rivivono su di sé ciò che recitano per la crudezza della tragedia medesima, fatta di  tradimento, giochi di potere, violenza e morte. Un bianco e nero elegantissimo non lascia quasi mai le riprese e regala all’ opera ancora più solennità ed epicità storica. Alcuni dialoghi si rivelano molto forti ed emozionali insieme ad alcune inquadrature meste ed angosciose, come i primissimi piani di una scena nel mezzo del film, durante le prove , con cui i protagonisti, seguiti dalla scritta  dei  rispettivi reati e delle  pene da scontare, fissando l’ obbiettivo, esprimono  tutto il proprio dolore e la  propria inquietudine interiore senza aprir bocca   . Continua a leggere

“Prometheus” di Ridley Scott

UN DISCRETO RITORNO AD UNA FANTASCIENZA D’ ALTRI TEMPI

voto: ** e mezzo

(USA-2012)

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Sull’ isola di Skye, in Scozia, nell’ anno del signore 2089, gli scienziati  archeologi Elizabeth Shaw (Noomi Rapace) e Charlie Holloway (Logan Marshall-Green)  scoprono in una grotta delle pitture di migliaia di anni prima  che raffigurano dei giganti che indicano una costellazione. Sovrapponendo questo disegno stellare a vari altri reperti storici,  dimostrano che in tutte queste scoperte appare la medesima immagine, che sembra essere una mappa stellare e , secondo la dott. Shaw, addirittura un invito a raggiungere i veri creatori del mondo e del genere umano: i cosiddetti “Ingegneri”. La Weyland Corporation finanzia, alla luce di queste scoperte, la costruzione della navicella “Prometheus” che con una équipe di scienziati raggiungerà nel 2093 la luna LV-223, l’ unico luogo ospitale  della disposizione di pianeti corrispondenti al disegno. Oltre alla presenza nell’ operazione dei due archeologi affiancati da vari altri scienziati,  l’ androide David (Michael Fassbender) si occuperà  della salute dei viaggiatori e della gestione di Prometheus, il comandante dell’ operazione è l’ affascinante e schietta Meredith Vickers (Charlize Theron) e la guida del vascello è affiata al divertente Capitano Janek (Idris Elba). La spedizione scientifica ha inizio con scoperte eccezionali che dimostrano la passata presenza di una civiltà molto più evoluta di quella umana, reperti alieni quasi perfettamente conservati, evoluzioni genetiche in atto e presenza di esperimenti scientifici inquietanti. La situazione tuttavia rimane sotto controllo fino alla  prevedibile  morte di due membri dell’ equipaggio, che si perdono nelle grotte anguste del sito ed entrano a contatto con strane forme di vita, somiglianti a rettili che entrano nel loro organismo, trasformandoli geneticamente.  Nel frattempo David decide di capire fino in fondo gli effetti dello strano liquido ritrovato nelle grotte sull’ uomo e decide di contaminare il bicchiere di Charlie. Continua a leggere

Bella addormentata di Marco Bellocchio

                          UN BEL RITORNO, PURTROPPO POCO APPREZZATO

                                                            voto:***   (Italia-2012)

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Italia, Febbraio 2009. La drammatica vicenda di cronaca di Eluana Englaro, ragazza in coma vegetativo da 17 anni, per cui i famigliari chiesero di interrompere l’ alimentazione forzata, considerandolo un inutile accanimento terapeutico, scatena  un notevole dibattito sulle prime pagine di stampa e media, riversandosi anche nella politica nazionale, a cui spetta l’ arduo  compito di acconsentire o meno al volere della famiglia. In questa delicata situazione sociale, il senatore Uliano Beffardi (Toni Servillo), deputato della maggioranza berlusconiana del periodo, decide di schierarsi contro la decisione del partito e di votare a favore dell’ interruzione terapeutica e conseguentemente di lasciare il suo ruolo , rinunciando ad una carriera politica superficiale e mistificante. Nel frattempo la figlia, Maria (Alba Rohrwacher), che dopo la morte della madre (anch’ essa tenuta in vita grazie a delle macchine) si è allontanata sempre più dal padre,  decide di recarsi  a Udine, dove Eluana è ricoverata,  per pregare e sperare nella sua sopravvivenza . Nel frattempo  viene raccontata la vicenda di una madre, Divina Madre  (Isabella Hupert), che ha sacrificato la sua vita e la sua carriera recitativa per assistere sua figlia in coma profondo e parallelamente la vicenda di Pallido (Bellocchio), un medico che decide di aiutare una tossico dipendente (Maya Sansa)  che vuole togliersi la vita.

La propensione di Bellocchio verso un Cinema civilmente e socialmente militante e attivo anche in questa occasione non viene tradita e il regista veicola mediante gli occhi dei suoi personaggi un fatto di cronaca reale  e moralmente complesso che ha riguardato l’ Italia intera. Riesce a farlo con un “triple” plot che mostra più possibilità interpretative e possibili posizioni personali davanti ad una questione delicata come quella dell’ accanimento terapeutico e interruzione delle cure per  stati vegetativi irreversibili. Senza retorica e demagogia, il  racconto si presenta  schietto , coraggioso e coerente senza il  timore di esprimere le proprie idee, grazie a  un’ onestà espressiva e una riflessività di forte impatto . Tecnicamente la pellicola è ben curata e di attenta direzione: senza grandi virtuosismi ma pragmatica e ordinata (tipico stile di Bellocchio), con una messa in scena sempre molto puntuale e precisa che valorizza  i lievi movimenti di macchina. L’ impianto prossemico e l’ utilizzo dello spazio è attento  e ordinato e il montaggio è fluido e, malgrado i vari intrecci, mai confusionario o sbrodolato. La recitazione dei personaggi è pulita e emozionale soprattutto nella performance di Toni Servillo, che nei panni del politico amareggiato e frustrato da ciò che ha intorno  sembra nel suo habitat. Ottima anche l’ interpretazione della Huppert che vive perfettamente su di sé  l’ emotività devastata ma apparentemente rigida di una madre integra  ma infelice, toccando nel finale  un vertice espressivo e recitativo  con la magnifica citazione di Lady Machbeth nel  gesto di lavarsi continuamente le mani  dal sangue durante il sonno, manifestando inconsciamente  la volontà di togliersi di dosso una colpa interiore, presumibilmente la sua impotenza davanti alla figlia inerme. La sequenza della figlia del senatore è una buona cornice alle principali storie narrate (le due precedenti), mentre quella del medico appare più rigida e forzata delle altre tre, non riuscendo mai a convincere del tutto, anche se raggiunge anch’ essa dei buoni  livelli recitativi. La tendenza  polemica  e la critica politica tipica delle  pellicole Bellocchio  anche in questo caso non si fa attendere e la satira emerge in modo lieve ma costante  in più occasioni  nei confronti delle maldestre dichiarazioni pubbliche  di Berlusconi e nella  vanità di certi atteggiamenti politici e personali all’ interno del partito del protagonista Beffardi. Il finale può apparire spezzato e netto ma nell’ economia del film un finale incompleto ma riflessivo risulta  la direzione più consona per un ‘ opera  del genere , che riesce a non  essere mai prevaricante e didascalica, lasciando grande libertà interpretativa allo spettatore. Ottima produzione italiana e ottimo ritorno al grande Cinema di un grande autore italiano, dopo alcuni anni qualitativamente discutibili. In concorso alla 69^ Mostra  del Cinema di Venezia, non ha ricevuto premi ma, al contrario, è stato vittima di alcune accuse di provincialismo tipico italiano da parte di un esponente della giuria. Evidentemente a Venezia si sono dimenticati l’ importanza civile e sociale del Cinema e la sua rilevanza popolare ed antropologica. Certe pellicole al contrario vivificano l’ arte e la rendono meno autoreferenziale  ed isolata intellettualmente e culturalmente, intraprendendo un ruolo pragmatico e civile non sottovalutabile. Sbattuta la porta, Bellocchio ha dichiarato che non si ripresenterà mai più a Venezia  ed  è difficile non sostenere il suo comportamento.

L’ Estate di Giacomo di Alessandro Comodin

                             CRESCITA E AMORE IN UNA FIABA IMPRESSIONISTA

                                    voto: *** e mezzo  ( Italia-Belgio-Francia 2012)

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Nelle campagne friulane, sulle rive del Tagliamento , Giacomo (Zulian), un ragazzo sordo di diciott’ anni e la sua amica d’ infanzia Stefania (Comodin), si perdono in una selva estiva durante una gita al fiume per un pic-nic. Raggiungeranno un laghetto splendido, un luogo paradisiaco fuori dal tempo, dove trascorreranno intere giornate insieme, trasportati quasi in un mondo fiabesco e intimo. Un microcosmo ideale in cui liberano la propria  spontaneità, affetto e  libertà, sullo sfondo di una crescita inesorabile, e percepita da entrambi, verso la maturità e il distacco dalla spensieratezza adolescenziale. Una crescita e un cambiamento che si dimentica davanti a quel luogo ameno che pare un’ angolo di mondo eterno ed innaturale, in cui il tempo si arresta e  dove Giacomo scoprirà anche l’ amore di una ragazza, Barbara (Colombo), anch’ essa sorda, che si innamorerà di lui.

Influenzato   dalla stagione  “Nouvelle Vague” francese e dal “Cinema Diretto”  anni sessanta, l’ emergente regista Alessandro Comodin realizza con stile apparentemente semplice ma consapevole e volitivo, di forte afflato cinematografico, un’ opera di grande livello sceneggiativo e buona consapevolezza tecnica, che va ad indagare le profonde dinamiche emotive del passaggio generazionale verso la maturità  sulla pelle di un protagonista affetto da un prevaricante handicap. Giacomo è consapevole del suo problema ma il suo disagio emerge in modo coraggioso, quasi aggressivo. Ama cantare e suonare la batteria, giocare  e scherzare senza sosta, anche con un linguaggio spesso e volentieri scurrile, probabile retaggio della sua emancipazione sociale nella sua primissima adolescenza. Davanti a lui, da una parte  un’ amicizia (quella con Stefania) intensa e di lungo corso, a cui non serve quasi nemmeno più la  parola e dall’ altra un’ amore insicuro e acerbo, quello di Barbara, fatto di effusioni accennate e fremiti giovanili.  Dinnanzi  allo spettatore una favola di eternità, fatta d’ innocenza e spontaneità, che si muove leggera lungo i sentieri della narrazione con una cinepresa che non invade mai il cosmo dei protagonisti ma lo indaga da vicino, con piani strettissimi e spesso riempiti totalmente dai soggetti, servendosi  di inquadrature in movimento con macchina a mano che accolgono lo spettatore nella stessa dimensione del personaggio . Quest’ ultimo infatti viene letteralmente seguito dalla camera,  come avviene per i primi dieci minuti di film  ed è sempre ripreso da   piani lunghi  che ricordano molto i “long take” della Nouvelle Vague a macchina sospesa sempre nella stessa posizione, malgrado i movimenti anche fuori quadro degli attori. Una regia influenzata anche dall’ esperienza documentaristica, che emerge in più scene anche grazie alla passata esperienza di genere dell’ autore con la pellicola “La febbre della caccia” , entrato nella sezione cortometraggi della Quinzaine des Réalisateurs di Cannes.  Un’ ottimo prodotto italiano, di una freschezza unica che poggia  su un genere drammatico complesso e articolato, che tuttavia riesce ad essere concreto e credibile sia a livello formale che tecnico. La spontaneità e la “normalità” degli attori danno alla pellicola   ancora più naturalezza e purezza estetica , da cui divampa in più occasioni una forte  umanità, catturata da  una sensibilità artistica non usuale e anche grazie ad una conoscenza tecnica cinematografica matura.  L’ organizzazione sequenziale sempre in “sequenza in tempo reale” equilibrata e costante, infatti,  lo dimostra. In ultima istanza, ottimo il lavoro alle musiche e alla fotografie, gestito in parte dallo stesso Comodin che firma anche la sceneggiatura. Una piacevole sorpresa nel panorama degli autori emergenti italiani che ha subito ricevuto un ottimo successo di critica , raggiungendo buonissimi risultati  con il “Pardo d’ oro Cineasti del Presente” al  Locarno Film Festival 2011, una Menzione speciale ed un “Premio Cinema italiano” al Festival dei Popoli 2011, un “Gran Premio della Giuria” e “Premio Documentario” al Belfort International Film Festival 2011 e un’ “Ovidio d’ Argento” per il miglior film al Sulmona Cinema film Festival. Un ‘ opera europea ed italiana di grande livello cinematografico  che, grazie ai riconoscimenti internazionali, ha ricevuto una buona e meritatissima attenzione distributiva  tutt’ altro che scontata, considerando il budget di produzione.

Hunger di Steve McQueen

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                                                                              Voto ***   anno: 2008

All’ inizio degli anni ’80, l’ abolizione dello statuto speciale di prigioniero politico, per mano del primo ministro inglese Margaret Thatcher , rende tutti  i carcerati appartenenti alla resistenza irlandese dell’ IRA alla stregua di criminali comuni e porta a continue e articolate proteste dei medesimi,  appartenenti a questo movimento. Nella prigione di Maze, a Long Kesh, le proteste proseguono con perentorio costanza. Si va dallo sciopero “delle coperte” a quello dell’ “igiene”, sotto la guida di Bobby Sands (Michael Fassbender), uno dei leader del movimento. Dopo la richiesta e la pretesa di poter indossare abiti civili e l’ ennesima repressione violenta e schernitrice degli agenti del carcere, accompagnata dal  rinnovato  rifiuto di acconsentire alle pretese dei detenuti da parte del primo ministro,  la rivolta prende una piega più aggressiva e Sands indice uno sciopero  generale della fame, che tutti gli altri detenuti avrebbero dovuto seguire.  Questa scelta assoluta e suicida durerà sessantasei  giorni. Più di due mesi  di passione e sofferenza  volontaria che porteranno Sands  alla morte di inedia , nell’ ospedale della prigione, insieme ad altri nove detenuti, ribattezzati dalla Storia: “martiri dell’ IRA”.

Film del 2008, di un regista emergente londinese, Steve McQueen, che dopo i successi alla 52^ e 53^ Biennale d’ arti visive di Venezia esordisce sul grande schermo con “Hunger”, pellicola passata in sordina e distribuita pochissimo in Italia ma che è stata molto apprezzata alla 61^ edizione del Festival di Cannes, dove è stata premiata con la Camèra d’ Or, come miglior opera prima (premio meritatissimo, visto che siamo di fronte  ad un  esordio veramente inaudito. La corporeità e la fisicità sono al centro di una regia cosciente e matura che ha nell’ inquadratura la sua punta di diamante, un’ attenzione esasperata alla forma e all’ immagine che ricorda  la centralità scenica del decoupagè classico della Kummerspiel  e della scuola espressionista  tedesca degli anni ’20, Un Cinema di grande impatto scenico e di grande suggestione visiva  pro filmica.  Il dettaglio e l’ inquadratura in primo piano spadroneggiano nell’ esordio del film, concentrandosi sulla tragicità omologante della vita di una guardia penitenziaria  del carcere e  nel finale , quando la catarsi  espressiva si focalizza sul dramma emotivo e fisico di Sands, che si vede morire poco alla volta, in nome di un’ idea. La scenografia è attenta e rispecchia lungo tutte le inquadrature il clima della scena stessa e mi riferisco alla freddezza glaciale delle scene della passione e del sacrificio finale lungo le stanze d’ ospedale del carcere o al calore delle riprese del dialogo tra il protagonista Sands e l’ amico Padre Dominic Moran (Liam Cunningham) , scena che mostra un’ enorme tecnica di regia. Questa sequenza narrativa infatti,  che risulta essere il vero snodo del film, in cui tutte le carte vengono mostrate e tutte le dinamiche della vicenda vengono svelate,  è quasi completamete girata con un lunghissimo long take, un’ inquadratura lunga che assomiglia molto al piano sequenza (ma che non esaurisce il segmento narrativo) della durata di 20’, che interrompe il silenzio della parte iniziale e anticipa quello finale e che esalta le capacità interpretative dei due attori, e soprattutto quelle di Michael Fassbender, che realizza un lavoro superbo, andando quasi oltre la recitazione, mostrando e vivendo sulla sua pelle una magrezza quasi insostenibile allo sguardo. Altro long take di una decina di minuti riflessivo e dilatato mostra la pulizia del corridoio di fronte alle celle del carcere e svela   il ritmo cadenzato  e dinamico del film che alterna inquadrature soggettive,  semisoggettive e sguardi in  macchina accompagnati a dialoghi affilati e perentori a riprese esasperate e dilatate, enormi silenzi e lunghi intervalli espressivi, narrati sempre con sottile e misurato equilibrio formale.

Una pellicola di livello molto alto che non ha paura di arrivare a livelli di violenza e sofferenza pura, che non si nasconde e che, pur concentrandosi poco sulla parola, riesce sempre ad essere chiara e lineare, contestualizzando sempre lo scenario sociopolitico del periodo, anche con immagini di repertorio e registrazioni reali di discorsi di Margaret Tatcher, che aiutano alla perfetta comprensione dell’ intreccio. Una regia cosciente a accurata che manifesta un grande talento e una profonda conoscenza della tecnica registica, espressa con uno stile personale e maturo.

Film, ridistribuito in questo periodo nelle sale (anche bresciane ) con colpevole  ritardo, a causa di distribuzioni troppo timide. Malgrado molti critici in Europa gridassero al capolavoro, “Hunger”, in Italia, non trovò nemmeno una casa disponibile nel 2008. Grazie a “Bim Distribution” e anche alla grandiosa ascesa di Michael Fassbender, protagonista anche del secondo film di McQueen “Shame”, per il quale l’ attore tedesco ha vinto la “Coppa Volpi” come miglior attore al Festival di Venezia del 2011, finalmente anche il pubblico italiano può godersi questo grande prodotto.

a.c.a.b. di Stefano Sollima

                                                   CELERINO, FIGLIO DI PUTTANA

                                                                 Voto: *** (Italia-2011)

Cobra (Pierfrancesco Favino), Negro (Filippo Nigro) e Mazinga (Marco Giallini) sono poliziotti della Mobile d’ Ordine di Roma, dei celerini. Per intenderci, quelle guardie con caschi, scudi, manganelli che , fuori dagli stadi , piuttosto che nelle manifestazioni di piazza, hanno il dovere di mantenere l’ ordine sociale, limitando scontri e disagi collettivi, con ogni mezzo a loro disposizione. In sostanza la polizia da strada, il braccio violento della legalità. Tre uomini, tre fratelli, che si coprono le spalle a vicenda negli scontri come nella vita, tra difficoltà famigliari, economiche, lavorative, sul proscenio di un’ Italia piccolo borghese e misera, lungo le facciate scrostate di una Roma che perde la sua eternità storica e solennità, mantenendo solamente il suo carattere decadente e periferico , una metropoli provinciale, d’ afflato post borgataro, tra vie oscure, in cui ci si può fare largo solo con la forza. Ai tre moderni “gladiatori” da strada si affianca un ragazzo, Adriano (Domenico Diele), un novellino, un coatto romano che farà emergere le contraddizioni e i limiti stessi della sua squadra.

 

Un film di complessa realizzazione quello di Stefano Sollima, una pellicola che offre uno spaccato di realtà, che riflette sulla condizione di un lavoro umile e frustrante, spesso poco compreso e sconosciuto che viene veicolato lungo il film, divenendo paradigma popolare di una situazione politico sociale generale e diffusa, tuttavia non riuscendo a parlarne in modo efficace. E uno dei limiti di questo film è proprio questo, un limite sceneggiativo. Lungo l’ intreccio, dialogicamente, si mette molta carne al fuoco, molte idee e posizioni, anche legate a fatti di cronaca nera reale, legata ai celerini, si alternano ma non sempre vengono sviluppate e quasi mai raggiungono una conclusione netta, lasciando molta libertà interpretativa allo spettatore. Caratteristica che, da un certo punto di vista, può essere anche un pregio strutturale ma non quando possibili giudizi vengono alternati ad altri, senza decisione, senza perentorietà e soprattutto non quando i fatti sono così vicini a noi, e così attuali. Una tendenza che si rivela troppo politically correct e in antitasi con una sceneggiatura che dovrebbe essere sviluppata in modo contrario per la portata politica della storia. Si tratta tuttavia di un “falso” limite, in quanto il film offre uno spaccato genuino e onesto sulla condizione di una categoria, senza peli sulla lingua, anche se in alcuni casi poteva prendere posizioni più decise. Inoltre non dimentichiamoci che siamo di fronte ad una sceneggiatura non originale, tratta da dall’ omonimo romanzo di Carlo Bonini e ciò può rispondere alle questioni precedenti; quindi un film che vuole offrire un quadro veritè, senza arrovellarsi in giudizi o posizioni che prevarichino troppo l’ intreccio. Una sceneggiatura, tratta da un romanzo, che viene scremato e trasportato in pellicola, potendo risultare imcompleto, lacunoso e perdere l’ efficacia della propria trattazione.

Siamo di fronte comunque ad un film molto ben girato da un interessante regista emergente, Stefano Sollima, già conosciuto per la buona direzione della fortunata serie Tv di “Romanzo Criminale”. La scenografia è ben gestita e offre un quadro di confine metropolitano in cui lo stadio sembra un anfiteatro mostruoso, davanti al quale si consumerà la lotta, ripresa con atavica intensità. La cinepresa ne è l’ anima e il suo magistrale utilizzo, spesso a mano, rende l’ inquadratura (per la maggior parte delle riprese semisoggettiva) sporca e molto vicina ai personaggi, ripresi per lo più in piani ravvicinati, realizzando un continuum con l’ intreccio e i ruoli medesimi dei protagonisti. La suspance è molto ben curata e vivace, ossessiva, in particolare quando ci si avvicina la finale. Il racconto particolare dei personaggi è equilibrato, nessuno ha più spazio di altri e i vari drammi della vita di ognuno confluiscono collettivamente nel dramma generale. Il cast è strepitoso e risulta decisivo nell’ economia ultima del film, in particolare grazie alla figura di Pierfrancesco Favino, un attore grandioso, che recita con la forza scenica di un primattore teatrale, che buca l’ obbiettivo con uno sguardo, con un movimento, un gesto. Questa interpretazione mostra il suo enorme talento e il suo costante studio.

Guardiamo fra i nostri confini. Questo è l’ unico modo per valorizzare la nostra Arte.

il “FAUST” di Aleksandr Sokurov

              GRANDEZZA E ARTE CINEMATOGRAFICA PURA A VENEZIA

Un  film grandioso. Davanti a certi livelli, il cuore e la mente crepati dalla stragrande maggioranze dei film in uscita nelle multisale, si riapre in un respiro vivificante d’ arte e di assolutezza. Il “Faust” di Sokurov ha la potenza epica di un romanzo, la complessità strutturale di un’ opera filosofica e l’ equilibrio formale di una pellicola classica. Il tutto contestualizzato in una sceneggiatura di un’ attualità e umanità stupefacente, seppure l’ ambientazione sia remota, in un limbo di eternità e realtà.  Vita e morte, ambizione e desolazione, rifiuto e passione si mischiano in un vortice profilmico accurato e attento nella messa in scena e in una scenografia e fotografia che immobilizza lo spettatore, lo costringe in una poltroncina che diventa sempre più scomoda, sempre più angusta. L’ espressionismo tedesco e la tradizione della kammerspiel sono costantemente presenti nella pellicola tanto quanto lo è un senso costante d’ indecifrabilità di fondo dell’ arte quanto della filosofia che della natura umana, della psiche profonda dell’ uomo e del sapere, quello stesso sapere che il dottor Faust persegue visceralmente e che lo porta alla perdizione e ad un’ inquietudine crescente tra diavolo e sguardi, presenze oscure e quell’ homunculus nato in provetta che assomiglia incredibilmente al feto che fluttua tra le note di Strauss nello spazio in un altro, e lontano, capolavoro assoluto del Cinema moderno. Tutto ciò crea un grande proscenio teatrale in cui gli attori si muovono in modo equilibrato e armonico, secondo un grande sistema prossemico. La scenografia è organizzata secondo un ordine pittorico che ci ricorda il romanticismo di Friederich e Delacroix, uno stile epico, oscuro e inquietante tra gli spazi naturalmente austeri d’Islanda, dove è stato girato il film. Non c’è semplicità in questa pellicola, non c’è ordine se non quello intelletuale, labile nell’ ondata di immagini e scene spesso indistricabili, che arrivano a sfiorare la non narrazione in alcuni tratti, complice la durata di 134 minuti che dà un senso di infinitezza alla stessa pellicola, unito all’ indecifrabilità del finale che più volte sembra arrivare in anticipo rispetto alla storia, imprevedibile  quasi come in opera lirica di Wagner.

Liberamente tratto del “Faust” di Goethe, ultimo atto della tetralogia del regista, preceduto da “Moloch”(1999), un film su Hitler, “Taurus” (2000) su Lenin e “Il sole” (2005) sull’ imperatore giapponese Hirohito. Opera colossale che riflette sul potere e sull’ uomo, sulla sua fragilità, le sue passioni, le sue debolezze che condizionano la vita e le scelte anche di crete personalità storiche di enorme importanza.

Leone d’ oro 2011 alla 68′ mostra internazionale d’ arte cinematografica di Venezia.  Se i festival possono ancora servire a consegnare al pubblico e alla critica  grandi autori e certi capolavori, che ricordano l’ arte del Cinema e la grandezza della sua natura complessa e intricata, la sua difficoltà di creazione e d’ osservazione,  viva i festival e viva la biennale di Venezia. Vedere, d’ altra parte, una risicatissima distribuzione e una sala praticamente vuota non conforta ma questa è un’ altra storia.

warrior di Gavin O’Connor

                                                                              SOGNO AMERICANO E LACRIME

                                                                                  voto :** e mezzo        (USA-2011)

Brendan (Joel Edgerton) e Tom Conlon (Tom Hardy) sono fratelli e non si vedono da molto tempo. Quest’ ultimo , dopo il divorzio dei genitori, è fuggito con la madre e si è arruolato nei marines, il primo è rimasto con la sua ragazza e ha messo su famiglia, diventando un docente di fisica. Entrambi non si rivolgono da tempo la parola e non parlano con il padre Paddy (Nick Nolte), ex alcolizzato. Queste tre vite ormai separate si rincontreranno grazie a “Sparta”,  un torneo di MMA (mix martial art) ad Athlantic City con un premio di cinque milioni di dollari , in cui parteciperanno i migliori combattenti al mondo. Tom decide di parteciparvi per mantenere la famiglia di un suo compagno di battaglia, caduto in Iraq e, tornato improvvisamente a casa, chiederà al padre di allenarlo. Brandon, ormai lontano dalla “gabbia” da anni, chiederà al suo ex allenatore Frank Campana (Frank Grillo) di allenarlo e portarlo al torneo per gravi problemi economici in famiglia e per mantenere sua moglie Tess e le sue due bambine. Tra sudore, lacrime e sangue i due guerrieri combatteranno, fino ad arrivare alla finale assoluta, che consegnerà il ricco premio solamente al vincitore, all’ ultimo rimasto in piedi.

Dopo un film sportivo sull’ hockey e la storia familiare di “Pride and glory”, Gavin O’ Connor (che nel film interpreta l’ organizzatore dell’ torneo, JJ Riley) cerca di sviluppare con “Warrior” queste due tematiche che non hanno nulla di originale, servendosi però   di un  double plot alternato in modo regolare e costante, riuscendo a dare grande vivacità e varietà alla pellicola. La macchina da presa, spesso a mano, è magistralmente condotta soprattutto negli incontri, dove viene reso lo scontro in modo molto chiaro e preciso, riuscendo a trasmettere grande tensione e adrenalina sportiva  allo spettatore. Scene di grande intensità che decollano chiaramente nella seconda parte del film , che danno una spinta considerevole alla sceneggiatura base di  una pellicola  che dura più di due ore e riesce a non stancare mai,  anzi l’ attenzione cresce sulla focalizzazione dei personaggi ripresi, affievolendosi solamente nel finale con lo scontro dei due fratelli poco incisivo  e poco convincente. La messa in scena è molto attenta e precisa come la cura dei personaggi, che fa emergere il carisma recitativo di Tom Hardy in modo diretto e netto, come capita spesso nei film che vedono lui come protagonista. La sceneggiatura è legata esplicitamente al format di  altre pellicola recenti o passate che hanno il combattimento come elemento base del film e mi riferisco a “Rocky”,  “Cinderella man” o “The fighters”, meno a “Million dollar baby” a cui è stato avvincinato spesso, tuttavia  si mostra dinamina e varia con colpi di scena presumibili ma ben girati e un’ umanità forte che percorre come filo conduttore tutto il film e tutti i suoi interpreti dal padre alla moglie di Brendan, dal preside della scuola dove Brendan lavora, all’ allenatore Frank, fino ad arrivare a Tom che nel film acquisisce il ruolo decisivo di maschera tragica della storia narrata. Sofferenza e fatica si mischiano in un film piacevoile e dinamico, forte e appasionante in cui molto è raccontato con l’ immagine più che con le battute e i copioni, con una grande attenzione alla scena e all’ impianto profilmico della ripresa. Pochissimo successo al botteghino ma buona critica.  Un’ ultima cosa, per tutti gli amanti del Wrestling, il temibile russo, campione assoluto della disciplina MMA, nel film  è interpretato da Kurt Eangle, campione di Wrestling storico.

I love Radio Rock di Richard Curtis

                                                      LIBERTA.’ ANARCHIA. ROCK ‘N’ ROLL

                                                     voto: ** e mezzo     (Germania, UK-2009)

    Nell’ Inghilterra degli esorbitanti anni ’60 la radio privata e pirata era l’ unica scappatoia esistente e l’ unica valida alternativa per i ragazzi di ascoltare buona musica in grande quantità poiché la conservatrice radio nazionale, la BBC,  trasmetteva soltanto 45′ la settimana di brani pop e rock. In questa situazione acquisisce  sempre più importanza l’ emittente pirata  “Radio Rock”, una radio da palinsesto giornaliero e continuo che trasmette per 24 al giorno musica pop e rock di quegli anni. Lo studio di questa radio è un enorme barcone  fatiscente ma inarrestabile che naviga al largo del Mare del Nord. Il comandante di questa nave è Quentin (Bill Nighy), un brillante sessantenne con la musica nel sangue e con uno charme da vero rocket man che dirige i vari deejay, tra i quali spiccano “Il conte” il capo carismatico della nave (Philip Seymour Hoffman), il rotondo ma affascinante Dave (Nick Frost) che con la sua voce fa innamorare tutte le ascoltatrici e il nuovo arrivo Gravin (Rhys Ifans) un ex leggenda del rock che con la sua vena artistica e improvvisazione fulminante, dissacrante e provocatorio farà raddoppiare gli ascolti. La storia è raccontata dalla prospettiva di un ragazzino , Carl (Tom Sturridge) che salirà a bordo per ordine della madre per allontanarsi dalle trasgressioni della terra ferma, che a confronto di quelle di Radio Rock sono un nonnulla. Belle donne, droghe e musica si sprecano su questa barca in cui l’ ideale anarchico cavalca a ritmo di musica e passioni la vita di ognuno dei personaggi , compreso il piccolo Carl, che scoprirà l’ amore e conoscerà suo padre.

Tutta la sceneggiatura del film è incentrata sì su Carl ma il coprotagonista è la musica medesima che  diviene il veicolo sceneggiativo per conoscere e rendere allo stesso modo  importanti e decisivi attori non protagonisti e apparentemente secondari . La sceneggiatura dopo una prima parte forsennata e molto veloce si adegua alla scena, rivelandosi armonica nella parte centrale col decisivo arrivo di Gavin e quasi dilatata nella parte finale, in quel fasullo unhappy-end che trasforma il film anche in una esplicita dichiarazione di libertà attraverso l’ amore per la musica e per la vita, negli anni in cui il Rock sembrava la chiave di tutti quei desideri giovanili antitradizionali, deviati ed estremi dell’ anarchia. Ottime le interpretazione con quella di Hoffman (performance  che alcuni definivano da Oscar) e Ifans sopra tutti; musiche commerciali di grande effetto che vengono poste nei momenti giusti e si rivelano degli ottimi anelli collegativi per le scene e le sequenze del film. Una buona regia quella di  Curtis che riutilizza  molti attori usati in film precedenti come “Love Actually” e “Notting Hill”, finalmente liberi di esprimersi al meglio senza la presenza spesso ingombrante di Hugh Grant e senza la presenza di un vero protagonista sopra gli altri. Interessante la gestione dell’ ultima sequenza che ricorda in più occasioni “Titanic”, sia a livello di riprese, sia per l’ inaspettato epilogo e destino del leggendario barcone che, benché  in cattive condizione, non sembrava poter morire mai ma come dice “Il Conte” nell’ ultimo “on air” radiofonico: “… non muore niente di importante stanotte ma in futuro nuove canzoni verranno scritte, verranno cantate e saranno la meraviglia del mondo…”, che risulta poi essere la vera conclusione del film: potranno morire persone, idee , realtà ma la musica e la libertà non moriranno mai. Questo era ciò che trasmetteva “Radio Rock” e questo ideale non potrà mai morire.

Pochi incassi in America  e in Europa l’ hanno reso poco apprezzato al botteghino e la critica si spacca tra valutazioni molto positive e non particolarmente entusiaste. Si tratta comunque di una commedia brillante e vivace, mai stancante o prolissa, che ripercorre una realtà storica esistita realmente nella Gran Bretagna degli anni ’60 e che ha rivoluzionato a suo modo le generazioni successive e la diffusione della musica di quegli anni.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         

la fine è il mio inizio di Jo Baier

                                         CINEMATOGRAFIA ITALIANA SEPRE TROPPO IGNORATA

                                                                              voto: **              (Italia-2010)

Attanagliato dal cancro e costretto ormai ad una semi-infermità fisica, Tiziano Terzani (Bruno Ganz)richiama il figlio Folco (Elio Germano) da New York per trascorrere gli ultimi attimi con la sua famiglia, attimi di parole, sguardi, ricordi, riflessioni; una sorta di testamento ideologico ed intellettuale registrato che diverrà successivamente il libro “La fine è il mio inizio”, omonimo testo dal quale il film viene tratto. Questo ritorno traspone un vero e proprio viaggio di Folco nelle idee più profonde del padre, fatte di pensieri filosofici, ascetismo di matrice orientale, meditazione e astrazione ma anche di risate e umane preoccupazioni, esperienze e ricordi passati. Il tutto costellato da una costante sofferenza fisica accompagnata da un antitetico desiderio di felicità e serenità che il protagonista Tiziano pretende che ci sia intorno alla sua fine. Un film che si slega e per tematiche e per costruzione sceneggiativa, dai cliché  attuali d’ intrattenimento, quindi molto coraggioso ed evidentemente sentito (uno dei produttori e sceneggiatori, è infatti Folco Terzani). Una  pellicola che si poggia su parole, silenzi, sguardi , piccoli gesti e natura. Un lavoro comunque non facile da intraprendere, la regia infatti è un po’ faticosa, in particolare all’ inizio  le scene sono molto brevi ed il film risulta molto spezzettato e schematico, una mancanza d’ armonia che fa a pugni con lo sviluppo narrativo del film ; aspetto che però con i minuti si livella.Si tratta di un  problema comune, figlio della difficoltà insita nel trasporre un testo narrativo su pellicola. La regia di Jo Baier risulta un po’ faticosa nella parte iniziale ma migliora continuamente, con interessanti preziosismi  artistici che pongono in confronto le difficoltà e la disperazione della vecchiaia con l’ ingenua sincerità e serenità  giovanile. I dialoghi , forse anche per un’ interpretazione degli attori non ottimale (sia Germano che Ganz non convincono molto), risultano forzatamente non sentiti , come se si volesse ricreare una semplicità quotidiana toscana che però non si raggiunge, ricreando una realtà troppo costruita e poco spontanea.  Le tematiche ed i messaggi che emergono poi (sempre per quella difficoltà di passaggio da narrativa a cinema) sono densi e generici, semplificati, accennati forzatamente, come se si volesse a tutti i costi far emergere i pensieri più profondi del protagonista, mischiandoli e infilandone il più possibile ma rimanendo sempre in una generica ideologia ,in una superficialità in cui  complice si rivela il minutaggio piuttosto corto, da commedia più che da film drammatico. Buone musiche e interessanti scenografia che arrivano a diventare spettacolari quando i dialoghi tra padre e figlio divengono sempre più astratti e cosmici.

Tuttavia un interessante lavoro italiano su una personalità molto affascinante nel panorama giornalistico-letterario italiano, passato miseramente in sordina nelle grandi sale, collezionando un incasso totale di 420.000 euro (per farvi capire, “Amici miei. Come tutto ebbe inizio” di Neri parenti , solo nel primo week-end, ha guadagnato 1 milione e mezzo di euro).

Una pellicola qualitativamente non di primissimo ordine ma con spunti sceneggiativi, registici e scenografici interessanti. Uno di quei film che ha sempre meno vita facile nelle feroci multisale d’ oggi.