L’ Estate di Giacomo di Alessandro Comodin

                             CRESCITA E AMORE IN UNA FIABA IMPRESSIONISTA

                                    voto: *** e mezzo  ( Italia-Belgio-Francia 2012)

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Nelle campagne friulane, sulle rive del Tagliamento , Giacomo (Zulian), un ragazzo sordo di diciott’ anni e la sua amica d’ infanzia Stefania (Comodin), si perdono in una selva estiva durante una gita al fiume per un pic-nic. Raggiungeranno un laghetto splendido, un luogo paradisiaco fuori dal tempo, dove trascorreranno intere giornate insieme, trasportati quasi in un mondo fiabesco e intimo. Un microcosmo ideale in cui liberano la propria  spontaneità, affetto e  libertà, sullo sfondo di una crescita inesorabile, e percepita da entrambi, verso la maturità e il distacco dalla spensieratezza adolescenziale. Una crescita e un cambiamento che si dimentica davanti a quel luogo ameno che pare un’ angolo di mondo eterno ed innaturale, in cui il tempo si arresta e  dove Giacomo scoprirà anche l’ amore di una ragazza, Barbara (Colombo), anch’ essa sorda, che si innamorerà di lui.

Influenzato   dalla stagione  “Nouvelle Vague” francese e dal “Cinema Diretto”  anni sessanta, l’ emergente regista Alessandro Comodin realizza con stile apparentemente semplice ma consapevole e volitivo, di forte afflato cinematografico, un’ opera di grande livello sceneggiativo e buona consapevolezza tecnica, che va ad indagare le profonde dinamiche emotive del passaggio generazionale verso la maturità  sulla pelle di un protagonista affetto da un prevaricante handicap. Giacomo è consapevole del suo problema ma il suo disagio emerge in modo coraggioso, quasi aggressivo. Ama cantare e suonare la batteria, giocare  e scherzare senza sosta, anche con un linguaggio spesso e volentieri scurrile, probabile retaggio della sua emancipazione sociale nella sua primissima adolescenza. Davanti a lui, da una parte  un’ amicizia (quella con Stefania) intensa e di lungo corso, a cui non serve quasi nemmeno più la  parola e dall’ altra un’ amore insicuro e acerbo, quello di Barbara, fatto di effusioni accennate e fremiti giovanili.  Dinnanzi  allo spettatore una favola di eternità, fatta d’ innocenza e spontaneità, che si muove leggera lungo i sentieri della narrazione con una cinepresa che non invade mai il cosmo dei protagonisti ma lo indaga da vicino, con piani strettissimi e spesso riempiti totalmente dai soggetti, servendosi  di inquadrature in movimento con macchina a mano che accolgono lo spettatore nella stessa dimensione del personaggio . Quest’ ultimo infatti viene letteralmente seguito dalla camera,  come avviene per i primi dieci minuti di film  ed è sempre ripreso da   piani lunghi  che ricordano molto i “long take” della Nouvelle Vague a macchina sospesa sempre nella stessa posizione, malgrado i movimenti anche fuori quadro degli attori. Una regia influenzata anche dall’ esperienza documentaristica, che emerge in più scene anche grazie alla passata esperienza di genere dell’ autore con la pellicola “La febbre della caccia” , entrato nella sezione cortometraggi della Quinzaine des Réalisateurs di Cannes.  Un’ ottimo prodotto italiano, di una freschezza unica che poggia  su un genere drammatico complesso e articolato, che tuttavia riesce ad essere concreto e credibile sia a livello formale che tecnico. La spontaneità e la “normalità” degli attori danno alla pellicola   ancora più naturalezza e purezza estetica , da cui divampa in più occasioni una forte  umanità, catturata da  una sensibilità artistica non usuale e anche grazie ad una conoscenza tecnica cinematografica matura.  L’ organizzazione sequenziale sempre in “sequenza in tempo reale” equilibrata e costante, infatti,  lo dimostra. In ultima istanza, ottimo il lavoro alle musiche e alla fotografie, gestito in parte dallo stesso Comodin che firma anche la sceneggiatura. Una piacevole sorpresa nel panorama degli autori emergenti italiani che ha subito ricevuto un ottimo successo di critica , raggiungendo buonissimi risultati  con il “Pardo d’ oro Cineasti del Presente” al  Locarno Film Festival 2011, una Menzione speciale ed un “Premio Cinema italiano” al Festival dei Popoli 2011, un “Gran Premio della Giuria” e “Premio Documentario” al Belfort International Film Festival 2011 e un’ “Ovidio d’ Argento” per il miglior film al Sulmona Cinema film Festival. Un ‘ opera europea ed italiana di grande livello cinematografico  che, grazie ai riconoscimenti internazionali, ha ricevuto una buona e meritatissima attenzione distributiva  tutt’ altro che scontata, considerando il budget di produzione.

incontrerai l’ uomo dei tuoi sogni di Woody Allen

                                                                AUTOREFERENZA STUCCHEVOLE

                                                                 voto : **                (USA/Spagna-2010)

Un’ anziana signora, Helena (Gemma Jones), frustrata e spaventata da una vecchiaia sempre più incombente, resa ancora più difficile dalla separazione col marito Alfie (Anthony Hopkins), decide di farsi aiutare da una medium fasulla, Cristal (Pauline Collins),  che non fa altro che riempirla di false speranze e promesse che le danno (insieme all’ alcool) la forza di tirare avanti. Intanto l’ ex marito Alfie, stimolato dalla separazione, cerca di rinascere e sposa una prostituta, Charmaine (Lucy Punch), che lui  spaccia per attrice di teatro. Parallelamente a questa storia, durante il film, se ne sviluppa un’ altra, quella della figlia di Alfie e Helena, Sally (Naomi Watts), costretta anch’ essa ad un matrimonio infelice con il fortunato (ma non talentuoso) scrittore Roy (Josh Brolin). Relazione resa difficile da una situazione economica instabile, complicata  dalla grande attrazione di Sally per il suo datore di lavoro, Greg (Antonio Banderas), e definitivamente rovinata dall’  innamoramento fanciullesco del marito di Sally, Roy, per la loro vicina di casa, la bellissima Dia (una bellissima Freida Pinto), che per seguire lo scrittore rovinerà oltre che a quello di Roy, anche il suo matrimonio con Alan (Neil Jackson).

Che negli ultimi quattro, cinque anni, Woody Allen non abbia più (per così dire) quella verve artistica di un tempo, non è una novità e sviluppare una critica semplicemente su quest’ aspetto risulterebbe oltre che stucchevole, piuttosto banale;  tuttavia  questa pellicola può essere catalogata come una delle peggiori performance del regista di “Annie Hall”. La sceneggiatura, che si basa sull’ entrelacement , risulta piuttosto movimentata ma troppo piatta, senza vigore, senza passione ma non tanto nella recitazione, che è buona per tutti gli interpreti, ma piuttosto nella direzione  e nella regia. Un cast del genere, che quasi mai si era visto nei film Woody Allen, non può fare miracoli e questa  sceneggiatura, stanca, noiosa e svogliata, emerge dopo non molto. I personaggi , almeno quelli principali, non sono mai stati così vicini a Woody Allen;  Helena, Alfie, e Sally, nei loro comportamenti, non fanno altro che impersonificare le classiche sfaccettature  dei personaggi del regista, che in altri film venivano inglobate solamente in uno dei protagonisti,  come avviene nel personaggio di Boris Yellnikoff in “Whatever Works”, dando così maggiore particolarità ai soggetti e di conseguenza migliore dinamicità alla storia. Sembra di essere di fronte ad un lavoro eccessivamente superficiale, un lavoro molto autoreferenziale e poco altro, che risulta ben presto quasi odioso allo spettatore per la sua arroganza espressiva, recrudescenza di una forma stilistica  presente anche nel suo penultimo lavoro “Whatever Works”,che però ha molte altre sfaccettature oltre a questa, che risulta essere quasi l’ unica del film, accompagnata da un citazionismo letterario spesso fine a se stesso. Un film stancante e parecchio deludente, che però si contraddistingue ovviamente dal classico clima stilistico che Allen riesce a dare alle sue pellicole, alle sue storie, ai suoi personaggi. Pochi sanno trattare e raccontare con l’ eleganza ironica e dissacrante di Allen i problemi quotidiani della classe medio alta occidentale, farcita di idosincrasie, ipocondrie, delusioni,passioni, amori… Ritratti magari non sempre realistici ma comunque splendidi.

Il titolo, che letteralmente sarebbe “Incontrearai uno sconosciuto alto e bruno” viene modificato nella traduzione italiana. Poco successo di pubblico, buon (ma ingiusto) trattamento da parte della critica.

 

 

 

brotherhood-fratellanza di Nicolo Donato

                                                         OMOSESSUALITA E MEIN KAMPF

                                                          voto: ***          (Danimarca-2009)

Dopo una delusione lavorativa ed una mancata promozione a maggiore dell’ esercito, a causa di accuse di omosessualità verso i propri soldati, il tenente Lars (Thure Lindhardt) decide di lasciare l’ esercito e di tornare a casa. Ormai civile inizia a lavorare con il padre in un’ azienda agricola e parallelamente si avvicina con crescente entusiasmo ad una confraternita fondamentalista di stampo neonazisti che perseguita in particolare extracomunitari e omosessuali, seguendo alla lettera le parole del “Mein Kampf” e dell’ ideologia  nazionalsocialista che tutti i componenti elogiano e perseguono fermamente. Lars è sempre più parte integrante del gruppo e ciò lo porterà ad andarsene di casa ed entrare a far parte a  tutti gli effetti della “fratellanza”; lui verrà affiancato a Jimmy (David Dencik) uno spietato skinhead, che gli farà da mentore e da insegnante verso questa sua metamorfosi. Vivranno insieme per molto tempo ed insieme alla loro ideologia nazista cresce un affiatamento particolare, un sentimento difficile da affrontare soprattutto per Jimmy, che sfocerà in una passione travolgente davanti a cui tutti passerà in secondo piano, persino la “fratellanza”. Il loro rapporto clandestino verrà minato dal razzismo omofobo del gruppo e li costringerà a scegliere tra il loro amore e la loro ideologia.

Un buon film che affonda la propria realizzazione nella “Nuovelle Vague” francese, infatti ogni artificio che possa compromettere la realtà è omesso, le scenografie sono naturali, senza lavorazione o accurate modifiche, la luce è quasi sempre quella naturale e molte scene infatti sono girate all’ aperto, gli attori non sono conosciuti e le riprese sono spesso effettuate con telecamera a mano. La regia è attenta e precisa e si concentra soprattutto sui due personaggi principali (Lars e Jimmy) . Essa insiste sugli  sguardi e sul linguaggio corporeo dei due, andando a rintracciarne pensiero, psicologia, istinti;  molti sono i silenzi e le frasi strozzate dei due protagonisti, che compiono una buonissima interpretazione . Buone musiche e affascinante scenografia accompagnano un film di livello medio alto che va chiaramente a rintracciare le contraddizioni dell’ ideologia nazista, andandone a colpire la base ideologica, quella della coerenza naturale tra uomo e uomo, considerando inammissibile la possibilità di attrazione fra individui  del medesimo sesso. Aspetto che si è già visto in alcuni film dove la ferrea ideologia nazista viene accostata in modo antitetico all’ omosessualità come avviene in “American Beauty” di Sam Mendes o “American History X” di Spike Lee. Un film quindi con una sceneggiatura e dei messaggi non propriamente originali che però risulta di buon livello cinematografico. Meritato “Marc’ Aurelio d’ oro” al festival di Roma; scarso e sconfortante successo di cassetto. 

 

manolete di Menno Meyjes

                                                          PASSIONE AMOROSA E TAUROMACHIA

                                     voto: **        (Spagna, Gran Bretagna, Usa, Francia-2007)

Manuel Laureano Rodríguez Sánchez -Manolete- (Adrien Brody), uno dei migliori toreri di Spagna e del mondo, vede la sua celebrità decadere in favore di nuovi e più giovani “matador de toros”, che sembrano offuscare la sua leggenda. Uno in particolare è l’ arrogante Luis Miguel Dominguin (Nacho Aldeguer), bello e rampante che conquista, con la sua tecnica, la “Plazas de toros”. La resa dei conti è vicina e il 28 agosto 1947 tutto è pronto per la sfida finale fra i due toreri. Nell’ attesa di questa epica battaglia, Manolete ripercorre i ricordi  della sua passionale e tormentata storia d’ amore (ormai finita) con Lupe Sino (Penelope Cruz), la bellissima e promiscua donna che gli ha stravolto la vita e di cui si è innamorato perdutamente. La perdita dell’ amante causerà angoscia e un ineluttabile sentimento di disperazione nell’ affascinante e timido torero che, nella sua ultima sfida con la morte (il toro), resterà vittima e non carnefice.

 La narrazione , ricca di analessi e retrospezione, abbraccia l’ affascinante sentimento di “eros e thanatos” che attanaglia la psiche più profonda del protagonista. Sentimento causato dalla travolgente storia d’ amore che acquisisce , durante la pellicole, accezioni metaforiche affascinanti e poetiche, come la forza bestiale del toro accostata al delicato ma ugualmente devastante fascino dell’ amante, oppure il rapporto tra carnefice e vittima che si crea fra il torero e il toro, molto vicino a quello tra l’ amante e l’ amato . Il regista, prima sceneggiatore, vuole, però,  dare alla pellicola un taglio troppo narrativo, usa infatti molti flashback e retrospezioni in modo quasi ossessivo, rischiando in più punti di risultare confusionario e disordinato. Il cast è ottimo e il protagonista Adrien Brody è perfetto per il ruolo del taciturno e timido torero, insieme anche ad una Penelope Cruz  incredibilmente affascinante e sensuale  che riesce  a mangiare semplicemente una mela con una carica erotica sbalorditiva (come avviene in una sequenza del film). La pellicola è inoltre caratterizzato da molte frasi ossimoriche ad effetto che puntano sul contrasto e che risultano troppo artefatte e di troppa influenza hollywodiana, come per esempio “Per voi uomini niente è reale finchè non sanguina” dice Lupa a Manolete, oppure, sempre la donna all’ amante, “Sei il più bell’ uomo brutto che abbia mai visto”, accompagnate da accenni di oscurità storica che fanno trasparire  retroscena politici franchisti dietro la prematura fine del torero, che rimangono sempre troppo in superficie.

l’ amante inglese di Catherine Corsini

                                    INNAMORAMENTO, PASSIONE, FOLLIA, DISTRUZIONE

                                                                         voto ***         (Francia-2009)

Nella Francia meridionale vive Suzanne (Kristin Scott Thomas), una donna di origine inglese con un marito medico e due figli. La sua è una vita borghese con varie comodità e possibilità economiche che le permettono di non lavorare.  La sua vita oltre ad essere comoda è anche monotona e abitudinaria, tanto che a quarant’ anni, per una sorta di desiderio di emancipazione personale,  decide di ricominciare a lavorare come fisioterapista. I lavori per il suo nuovo studio le permetteranno di conoscere Ivan (Sergi Lòpez), un operaio catalano ex galeotto che vive di lavori precari. La donna, frustrata forse da una vita troppo semplice, se ne innamora perdutamente e, in preda ad una passione irresistibile, fugge di casa e va a vivere con lui in condizioni molto misere,  che la obbligheranno a tornare a far lavori umili e faticosi ma il marito si mette contro la moglie, rendendole ancora più difficile l’ esistenza. Il potere del marito medico emergerà e la obbligherà a tornare a casa, in una condizione che lei non può sopportare e l’ epilogo tragico sembra l’ unica soluzione.

Un film francese di buona qualità. La regista, influenzata visibilmente dal Cinema di François Truffaut, racconta una delle più classiche e meno originali storie d’ amore impossibili che gettano le basi nella letteratura amorosa del 1800, da Flaubert a Tolstoj da “Madame Bovary” a “Anna Karenina”, andando a rintracciare l’ intimità psicologica della donna infedele, oppressa, sublimata e incatenata ad una condizione sempre più misera ma che in un lampo di lucidità decide doi seguire l’ istinto e la passione. Le varie recitazioni sono buone con un occhio di riguardo alla protagonista, davvero ottima nella parte della moglie infedele. Il film comincia lentamente e con una sorta di perbenismo e buonismo artefatto e a tratti fasullo che , certo, non vuole far altro che mostrare la vita banale e insoddisfatta della donna ma che spesso eccede.  Con i minuti, però,  la pellicola diventa sempe più accesa e forte. Molto buona la fotogerafia , con continui cambi scena e divisione quasi in sequenze del film. Ottime alcune scene in cui la disperazione della moglie, soprattutto quando viene obbligata a tornare a casa, emerge in tutta la sua potenza espressiva. Finale che si mostra piuttosto scontato ma che impenna nell’ ultima scena in cui i due amanti si incontrano, probabimente per l’ ultima volta, nel luogo in cui il loro amore ha vissuto i momenti più intensi.

Una buona produzione che è passata soltanto in poche sale, incassando poco più di duecentomila euro in Italia. Ennesima dimostrazione che il Cinema di qualità , ormai, bisogna ricercarlo, poichè nelle grandi e blasonate sale la possibilità di trovare buone pellicole è sempre più difficile.